Una gita fuori porta dalle tante sorprese.

Un anello tra vegetazione intricata, cascate e paesi abbandonati.


Quella di oggi è stata una escursione della memoria, a ritroso nella storia, in un angolo neanche tanto remoto delle Marche ma che è ormai quasi dimenticato e sconosciuto ai più. Mi trovo in un gruppo secondario di montagne, il comprensorio del Monte Ceresa, incastrato tra il preappennino marchigiano e le due catene più famose dei Monti Sibillini e dei Monti della Laga. Completamente in provincia di Ascoli Piceno, è un susseguirsi di montagne boscose la cui elevazione maggiore non raggiunge i 1500 metri; praticamente un tutt’uno con i Sibillini, se si considera che lo spigolo del Vettore che scende dal Pizzo di Pretare continua proprio sulle creste boscose che raggiungo i 1494 metri del Monte Ceresa, e diviso dal gruppo della Laga dal solco scavato dal fiume Tronto, e quindi dalla Salaria sul cui suo millenario scavare è stato tracciato il percorso. La struttura di questo gruppo è quella della vicina Laga; più bassa rispetto alla più blasonata catena montuosa è ricchissima di vegetazione, a tratti “rinselvatichita” dalla macchia mediterranea che praticamente l’ha riconquistata per intero; i boschi di faggi resistono alle quote più alte, quelli di Castagni, e più raramente quelli misti di Carpini e Roverelle alle quote più basse. La caratteristica principale sono però le tipiche stratificazioni di arenaria, roccia sedimentaria creatasi negli antichi mari che gli contribuiscono quel tipico aspetto a gradoni, selvaggio e solitario. Come la Laga questo comprensorio è ricco di acqua, anche se i suoi corsi si riducono ad essere piccoli fossi e a formare piccole ma spettacolari cascate; privo di rocce calcaree, caratteristica principale dei vicini Sibillini è il regno dell’architettura povera e rupestre dei contadini e delle epoche in cui la terra era l’unica fonte di sostentamento. Questo comprensorio montano rappresenta il simbolo della povertà assoluta di un epoca nemmeno troppo lontana, della miseria della gente che l’ha abitata, sfruttata fino alle grandi fughe del dopoguerra. Numerosi sono ancora i segni di costruzioni, abitazioni rubate alla montagna; come sulla Majella, ma il territorio è enormemente più piccolo per cui è più facile vederne. Ogni anfratto, ogni grotta porta ancora segni di interventi umani; muri a secco a chiuderle per creare ambienti vivibili, assi conficcate ancora nelle pareti a creare traballanti solai, e vicino, quasi sempre corsi d’acqua e piccoli appezzamenti pianeggianti, ora stracolmi di rovi e vegetazione ma allora utilizzati come orti. Addirittura nella grotta che visitiamo lungo il percorso, la grotta del Petrienno, che vari muretti a secco dividono in vari ambienti, la gente del posto racconta che vi hanno trovato rifugio militari durante la seconda guerra, non le ho viste perché ho evitato di entrarci per una questione di sicurezza, ma scritte sulle pareti all’interno ne sarebbero la testimonianza. Il percorso che abbiamo fatto è un anello tra una natura che si sta riappropriando del territorio, piccoli torrenti e cascate, grotte, arenarie sporgenti ed erose che regalano ancora i segni di “architetture” rupestri, paesi abbandonati e la quasi assoluta mancanza dell’uomo. Poco c’è da raccontare di questa escursione, molto c’è da vedere e da vivere sulla propria pelle, spero che le foto pubblicate possano rendere l’idea dell’ambiente ormai al di fuori del mondo. Dalla Salaria, località Centrale, tra Acquasanta ed Ascoli Piceno, si esce per Tallacano, ultimo avamposto raggiungibile con una comoda strada asfaltata: con molte curve e tornanti ci inoltra nel cuore di queste basse montagne ricche di boschi. Raggiunto Tallacano, sulla sinistra si potrebbe prendere e percorrere una brecciata per raggiungere Poggio Rocchetta ma un divieto del sindaco di Arquata ne impone il divieto al traffico; procediamo a piedi ligi al divieto, ma ben presto una ragione ben più autorevole ne convalida l’esigenza. Grosse pietre sono franate dalla montagna e la strada è completamente ostruita, anche a piedi si passa con difficoltà; chissà quando libereranno la strada, speriamo presto, ogni minimo ostacolo è una spinta ulteriore all’isolamento e all’abbandono del comprensorio. Sempre per strada raggiungiamo Poggio da dove inizia il sentiero vero e proprio. Sopra il parcheggio, passando tra due orti coltivati, dipartono due sentieri, prendiamo a sinistra, da quello di destra scoprirò più tardi che ci si torna. Un corridoio brevissimo tra 2 abitazioni, una delle due pericolanti e siamo già fuori dal minuscolo borgo, ovviamente non c’è traccia di essere umano; il sentiero si fa subito sottile e immediatamente si immerge nella vegetazione. Spariamo all’interno di un mondo selvaggio fatto di roccia e vegetazione fitta. Ruscelli e piccole cascate diventano compagni rumorosi dell’intercedere, mentre le rocce sporgenti e bagnate sono ora muri che delimitano il sentiero ed un attimo dopo ne diventano il fondo o la scala per superare piccoli dislivelli. Nei tratti dove la roccia è scaldata dal sole riusciamo a scorgere anche piante di asparagi, prestiamo maggiore attenzione, non siamo abituati e non è facile scorgere le cime che iniziamo a raccogliere; hai visto mai che alla fine dell’escursione non riusciamo a farcene una scorta sufficiente per una frittata o per un piatto di pasta? Da nulla compaiono pareti e balconi rocciosi che diventano poco dopo sporgenti tetti e grotte; diversi sono gli esempi che troviamo lungo il percorso di grotte adibite a rifugio o abitazione, ora in disuso, con solai traballanti o crollati e muri a secco parzialmente o totalmente abbattuti. Impossibile pensarli come luoghi vissuti fino a pochi decenni fa eppure le prove sono lì, davanti ai nostri occhi. Queste “rovine” incutono reverenza verso una popolazione che davvero ha sofferto e guadagnato ogni giorno che ha vissuto. L’esempio più eclatante e più affascinante lo scopriamo poco dopo, circa 40 minuti da Poggio, dalla vegetazione, mentre scontorniamo un fosso, appare una lunga parete di arenaria compatta prima ed un marcato tetto subito dopo, lungo e profondo dove sotto si fa buio tanto è sporgente e coperto dalla vegetazione. Rimango affascinato da questo luogo dove la roccia ha costruito davvero un “unicum”. Pochi metri e le sorprese si moltiplicano, prima una lunga e buia strettoia tra il tetto poco fa descritto ed un roccione staccatosi chissà quanto tempo fa; di la dalla strettoia una cascata che ti obbliga ad indossare il guscio e che devi oltrepassare, passandogli sotto tenendoti radente la roccia per non inzupparti e poi una enorme grotta, quella di Petrienno, dove le tracce dell’uomo e dell’uso che l’uomo ne ha fatto sono evidentissime. Questa è la grotta che ho descritto sopra, divisa in vari ambienti da mura ora parzialmente crollate, dove ci sono ancora solai e architravi traballanti, dove , dicono, hanno trovato rifugio militari alleati durante l’ultima guerra. Incredibile, non riesco a staccarmi da questo posto così unico e ricco di storia; di fronte alla grotta scorre il torrente, al suo limitare la cascata, non più alta di quattro metri ma ricca di acqua e rumorosa in questa stagione. Credo che presto o in qualche altra primavera tornerò in questo posto così vicino al mondo ma anche così lontano. Ed ora capisco anche il riserbo di Marina, voleva che la sorpresa di questo angolo sperduto fosse totale e vera, progetto del tutto riuscito. Riprendiamo il sentiero, sinuoso sui fianchi delle montagne a seguire i fossi a tratti profondi, fino al punto più stretto delle valli e poi via di ritorno sul fianco opposto, e così per lunghi tratti fino ad una valle più ampia, dove il sentiero si fa sterrata e dove orti e cataste di legna tagliata rifanno sentire la presenza umana a lungo dimenticata. In alto, dall’altra parte della valle, ancora lontano, scorgiamo i primi tetti di Agore, dove termina la strada carrozzabile e dove ancora alcune persone vivono. Tocca scendere in fondo alla valle dove scorre un altro fiumiciattolo, lo oltrepassiamo su un traballante ponticello e riprendiamo a salire; la sterrata è deturpata da profondi solchi, probabilmente trattori, che le piogge degli ultimi giorni hanno trasformato in cumuli di fanghiglia fastidiosa. Saliamo fino a cambiare versante, entriamo nel borgo di Agore dove ci accoglie una vivace e ciarliera vecchietta ed un signore intento alla raccolta del legno che ci offre un passaggio per il ritorno. E’ ovvio che rifiutiamo perché davanti pur avendo il sentiero che ritorna ad essere una strada brecciata che deve superare una profonda ed incassata valle ho anche l’appuntamento con Rocchetta, il paese ormai fantasma, abbandonato, crollato, abbarbicato sulle cengie sporgenti che dominano la vallata. Lungo la strada un cimitero, anche lui abbandonato, il recinto in pietra a tratti crollato, un cancello incatenato e le tombe a terra che quasi non si riescono più a vedere ; una costruzione al centro, anche questa parzialmente crollata, dominata da un abete che dona al posto un fascino intimo e triste. Il silenzio fa il resto, riesco a leggere poche cose sulle lapidi, anche questa piegate, spaccate, alcune date riportano alla fine di 2 secoli fa. Sporgono delle lapidi e delle croci dall’erba e dei lumini sparuti, segno che la pietà dell’uomo non ha completamente abbandonato quest’angolo di memoria. Mi trattengo alcuni istanti, i pensieri corrono e si accavallano e mi sento un estraneo ed il momento dopo un privilegiato che ha avuto il lusso di fare un salto indietro nel tempo. E poi Rocchetta l’ultima ventata della storia e della memoria di questa escursione fuori dai canoni. Case diroccate, crollate, totalmente o in parte; il “viale” centrale del paese invaso dall’erba, da una parte la liscia roccia della montagna, dall’altra le rovine. Un palazzo all’apparenza integro, anche se le finestre come per tutti gli altri sono sparite, è un pozzo senza fine, i solai sono crollati e sporgersi dalla finestra incute un momento di ansia. E la balconata, protetta ancora da una balaustra dove è proibito appoggiarsi, che conduce alla solita grotta chiusa da muri a secco, l’abitazione probabilmente della fascia “più povera” della gente che viveva in questo confine. Sotto, la valle, fino a Tallacano, piccolo e abbarbicato, che dobbiamo raggiungere presto perché le nuvole che si chiudono danno chiari segnali di anticipare la pioggia prevista per la metà del pomeriggio. Ritorniamo per poche centinaia di metri indietro e prendiamo dentro la valle per una chiara traccia di sentiero anche evidenziato da un segnavia; si scende fino ad oltrepassare l’ennesimo fosso ricco d’acqua, di nuovo su un ponticello più robusto del precedente. La vegetazione di questa valle è fitta ed intricata, lungo il sentiero facciamo una ricca scorta di asparagi la cui raccolta inevitabilmente ci prende e ci fa attardare. Ci assicuriamo un bel bottino di questa prelibatezza, già ci pregustiamo la frittata della sera, ma ci assicuriamo anche i primi scrosci di pioggia. Un baratto a nostro vantaggio, sotto i gusci iniziamo presto a sudare ma la busta con gli asparagi selvatici pesa sempre di più. Si ripassa per Poggio Rocchetta e da lì in poi richiudiamo l’escursione sulla strada dell’andata, ripassiamo la frana ed arriviamo a Tallacano che smette di piovere. Di filata a casa, forse riusciamo a farci scappare un piatto di pasta agli asparagi; non ci viene in mente modo migliore per concludere questa bellissima giornata di montagna.